Ventidue

Eustache Lesueur. 1616-1655. ParisL’Amour recoit l’hommage de Daine, Apollon et Mercure. vers 1647. Louvre.

La dolce donna dietro a lor mi pinse 
con un sol cenno su per quella scala, 
sì sua virtù la mia natura vinse;                                     102

né mai qua giù dove si monta e cala 
naturalmente, fu sì ratto moto 
ch’agguagliar si potesse a la mia ala.                         105


S’io torni mai, lettore, a quel divoto 
triunfo per lo quale io piango spesso 
le mie peccata e ‘l petto mi percuoto,                           108

tu non avresti in tanto tratto e messo 
nel foco il dito, in quant’io vidi ‘l segno 
che segue il Tauro e fui dentro da esso.                      111


O gloriose stelle, o lume pregno 
di gran virtù, dal quale io riconosco 
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,                            114


con voi nasceva e s’ascondeva vosco 
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita, 
quand’io senti’ di prima l’aere tosco;                           117

e poi, quando mi fu grazia largita 
d’entrar ne l’alta rota che vi gira, 
la vostra region mi fu sortita.                                          120


A voi divotamente ora sospira 
l’anima mia, per acquistar virtute 
al passo forte che a sé la tira.                                        123

«Tu se’ sì presso a l’ultima salute», 
cominciò Beatrice, «che tu dei 
aver le luci tue chiare e acute;                                        126

e però, prima che tu più t’inlei, 
rimira in giù, e vedi quanto mondo 
sotto li piedi già esser ti fei;                                            129


sì che ‘l tuo cor, quantunque può, giocondo 
s’appresenti a la turba triunfante 
che lieta vien per questo etera tondo».                        132

Col viso ritornai per tutte quante 
le sette spere, e vidi questo globo 
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;                         135


e quel consiglio per migliore approbo 
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa 
chiamar si puote veramente probo.                              138


Vidi la figlia di Latona incensa 
sanza quell’ombra che mi fu cagione 
per che già la credetti rara e densa.                              141


L’aspetto del tuo nato, Iperione, 
quivi sostenni, e vidi com’si move 
circa e vicino a lui Maia e Dione.                                    144


Quindi m’apparve il temperar di Giove 
tra ‘l padre e ‘l figlio: e quindi mi fu chiaro 
il variar che fanno di lor dove;                                         147


e tutti e sette mi si dimostraro 
quanto son grandi e quanto son veloci 
e come sono in distante riparo.                                     150


L’aiuola che ci fa tanto feroci, 
volgendom’io con li etterni Gemelli, 
tutta m’apparve da’ colli a le foci;


poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.                             154

Dante Alighieri, “Comedia, Paradiso”

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