2116. 22 Luglio 2023

Mi aggiravo all’ombra tenebrosa di una fitta selva, ed a volte mi sembrava di intravvedere tra i tronchi e l’intrico del sottobosco, al limite del campo visivo un barlume fugace fare capolino per qualche istante. Sulle prime pensai fosse frutto di un muoversi di foglie che lasciasse filtrare un raggio di sole, poi che l’atmosfera lugubre giocasse con la mia immaginazione. Ma queste improvvise apparizioni continuavano e cominciai a prestarvi sempre più attenzione. Ora quando mi sembrava di scorgere questo fantasma mi affrettavo a dirigermi nella sua direzione e sovente vi ritrovavo i segni del passaggio di un essere; delle tracce. Ben presto mi colse l’ossessione di risolvere il mistero e mi misi all’inseguimento di quell’essere sfuggente. Una caccia folle che mi portò sovente al limite delle sofferenze e della disperazione. Ma niente riuscì a distogliermi dal mio intento, e la mia caparbietà portò i suoi frutti. Un giorno la vidi nitidamente: era una cerva, bianca come la luce della Luna nella notte. Durò poco questa visione, ma mi confortò constatare che quella creatura inseguivo da così tanto tempo era reale e non un parto della mia pazzia. Rinfrancato nelle mie speranze e ritrovata la fermezza dei miei desideri non potei fare altro che con ancor più energia dedicarmi a raggiungere quell’essere miracoloso. E così fu che i nostri incontri, pur sempre nella distanza, si fecero sempre più frequenti e meno concitati. Ora capivo il gioco di Lei, la sua precisa volontà di catturare la mia attenzione, di mettermi alla prova nella solidità del mio intento, istigandomi a raggiungerla in mezzo a difficoltà inenarrabili. Ed il premio per ogni ostacolo superato era la sua crescente confidenza nell’elargirmi la vista del proprio essere. Ed ecco che un giorno la ebbi a pochi passi al limitare di una radura, mi avvicinai e Lei si tuffò nel piccolo laghetto formato da un rivo che vi scorreva attraverso. Andai ancora avanti, e quale fu la mia meraviglia nel trovarmi al cospetto di una creatura bellissima che nuda prendeva il bagno insieme alle sue compagne. Inebetito dalla subitanea ipnosi del mio cuore nel riconoscervi ciò che di più profondamente familiare era al mio amore continuai ad avanzare con riverenza. Ella mi sorrise e mi benedisse lanciandomi contro con la mano uno spruzzo dell’acqua di quella magica fonte. Il liquido freddo sul mio viso sortì di farmi risvegliare dal torpore incoerente dei miei pensieri. Ed in quella lucidità ritrovata mi accorsi di essere altro da ciò che credetti sino ad allora. Specchiandomi sulla superficie potevo vedere, al posto della consueta immagine, quella di un cervo. Scoprii così la mia vera natura, e che quella natura era la medesima di Lei. Ed in questa consapevolezza sorse in me la suprema volontà di liberarmi delle ultime vestigia del mio vecchio sedicente essere. Ella mi lesse nel pensiero ed acconsentì ad esaudirmi nell’uccidere ciò che di me non era me. Così morì colui che qualcuno chiamò Atteone, divorato da Lei. E con Lei da allora son rimasto e rimarrò per sempre insieme. Inseparabili, in un eterno indistruttibile amore

2084. L’uomo di Kalsoy (19/2/2017)

E’ in una rara limpida alba che l’uomo esce dal tunnel di Trøllanes per raggiungere Kallur. Siede sull’erica e poggia le spalle al faro. Rumorose pulcinelle di mare, qualche pecora, invadono a tratti lo sguardo, perso tra i riflessi scintillanti di neve del Grislatindur e quelli più cupi delle onde nel Kalsoyarfjørður. L’uomo è stanco, vede. Vede la follìa risalire come gelida bruma, da quell’oceano nebbioso d’immaginazione, lungo i fianchi diruti delle scogliere ch’emergono a picco sulla solitudine. Nella caligine presagisce nitida la cagione della millenaria faida di vittime e carnefici; i quali si scambiano favori e ruoli in un eterna tenzone tra esseri del mare e della terra che non si scorgono ne riconoscono. Subitaneamente capisce d’essere prigioniero di quell’isola, incatenata da Rhiannon tra la fantasia e la realtà insieme a tutti i suoi abitanti. L’uomo ad occhi aperti adesso sogna, non più selkie e sirene ma le ali dell’albatro, per poter scavalcare i recinti d’ogni orizzonte

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Idir cósta, idir cléibh
Idir mé is idir mé féin
Tá mé i dtiúin

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2065. Adiacenze, ovvero “Trappole ideali” (11/1/2017)

Una pecora rivoluzionaria si accorse un giorno di essere prigioniera, insieme alle altre, dietro un lungo steccato. Allora tanto disse e tanto fece, tanto si adoperò, sinchè non riuscì a scavalcarlo. Eccitata dalla nuova posizione, che aveva faticosamente conquistato, da quel momento non fece altro che prodigarsi nel predicare alle sue compagne, attraverso la staccionata, di quanto fosse bella la libertà, e a cercare di convincerle a seguirla. E così, infervorata e distratta, sempre gli sfuggì di esser solo finita nel recinto accanto

1830. Sarei potuto essere… (20/5/2015)

I cigni nascono tutti uguali, tutti grigi, tutti con lo stesso cuore di poeta. E’ poi che si sceglie da quale parte stare. Sarei potuto essere un avvenente cigno nero. Un piccolo tuffo in una pozza d’inchiostro e giù a scarabocchiare grovigli di belle parole tessute sulla trama del nulla. Già, sarei potuto essere un affascinante cigno nero, e vi avrei incantato parlandovi, infuocato e dolente, della maledizione dell’Uomo; benedicendola però in segreto. Avrei covato amorevole quel vuoto, che la vita ci chiede invece di colmare, perchè ne avrei fatto la mia ricchezza. Mi avreste visto accompagnarmi per l’aia insieme al pavone, ed estasiati non avreste saputo chi ammirare di più. Ho deciso altrimenti, di essere bianco! Sono sporco anch’io, come tutti vivo in mezzo al luridume e agli schiamazzi del cortile. Solo, silenzioso, in un angolo defilato, passo le giornate a lisciarmi con infinita pazienza le penne, per cercare di mondarle dal sudiciume. Sì, sarei potuto essere un maestoso cigno nero, ma mi sarei andato a nascondere all’arrivo del temporale, per paura che la pioggia potesse lavar via il nero, e mostrarvi il niente sotto. E invece ho deciso di essere bianco, e sferzato dall’acqua battente mi dispiego ed intono canti di ringraziamento. Non lo nego, sarei potuto essere un magnifico cigno nero, ed amare questo spiazzo squallido e nauseante. Io invece lo disprezzo, e non faccio altro, mentre cresco, che sognare il lago cristallino in cui un giorno mi immergerò. La cui acqua mi purificherà per sempre. Quel giorno in cui il vuoto sarà colmato e sarò forte.

Con ali di ghiaccio mi leverò in volo
Il sole mi trasformerà in nuvola
Il vento mi mescolerà al cielo
E nei vostri ricordi
Di me rimarrà solo
Qualche fiocco di neve

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“Nient’altro che del bianco a cui badare” (Arthur Rimbaud)

1748. Soli

Ne hai visti così tanti che sai bene cosa sono; e sei ben lieto quando li vedi transitare lontano dal tuo campo gravitazionale. Eppure, nonostante la vastità degli spazi siderali, qualcuno punta sempre nella tua direzione; come se una mano invisibile gli avesse impresso una perfetta spinta e traiettoria affinché intersechi la tua. E tu credi ciecamente nell’esistenza di quella mano. Ecco che quell’oggetto oscuro entra nella tua orbita. Sai già quello che succederà, ma siccome hai fede nella saggezza di chi te l’ha inviato, ti imponi una ubbidienza contro ogni ragione. Allora cominci a brillare con tutte le tue forze per tentare di illuminare quel corpo scuro che hai accanto, confidando di ignorare una qualche misteriosa legge fisica e che quel che stai facendo possa invertire irreversibili processi e innescare una emissione. Ma non l’ho mai visto accadere. Buchi neri li chiamano, stelle definitivamente collassate, divoratori spietati e senza requie di luce, energia e materia. La loro natura è il fagocitare ogni cosa gli capiti a tiro e farne oscurità mortale senza scampo; tutto entra in loro e nulla ne esce. Potrei persino esplodere come una supernova senza vedere neppure un minimo barlume di riflesso sulla loro superficie; verrei semplicemente risucchiato completamente nel loro nero assoluto, inglobato nella loro eterna stasi mortifera. Transitano, transitano e si schierano ai bordi del mio sistema. Pronti a un altro passaggio se mai ne capitasse l’opportunità. Transitano, ma non senza portarsi via il loro bottino. Non senza essersi presa la loro quota di energia. Ed io mi spengo, sempre più, come una nana bruna. In attesa di implodere e diventare come uno di loro. O del miracolo impossibile, in cotanta vuota immensità, di incrociare un altro sole che illumini me; di divenire insieme, una stella binaria. Prima sia troppo tardi

1671. Salvanco, ovvero “Come il Mago di Folk”

Quando il destino mi manifestò l’opportunità di seguirlo, lo feci senza esitazione. E presi la strada che menava a destra, quella passiva della fede in quel destino. Quella impervia di un sentiero che ripido si arrampica sui versanti della Montagna della Conoscenza. Attraversando boschi incantati, pieni di magia e bellezza. Pieni di prove e incontri pericolosi con creature dalla natura insospettabile. E nonostante la fatica e spesso lo sconforto, non mi sono mai arreso, guadagnandomi così una certa altitudine. Sapevo che era una strada senza ritorno, che più fossi salito in alto, più aspro ma sublime si sarebbe presentato il percorso e il paesaggio. Sapevo anche che mi sarei allontanato sempre di più dalla società umana, che sarei diventato un diverso e un disadattato alle loro consuetudini. E che sempre più rari e più brevi sarebbero stati gli incontri con miei consimili. Ma adesso che son qui, nella parte più desolata del monte, a viver dentro una spelonca, mi capita a volte di soffrire di questo isolamento. E non perché la mia vita non sia piena, ma proprio perché è talmente colma che tracima e vorrebbe, esattamente come una fonte alpina, trovare un lago in cui riversarsi, in cui trovare un suo scopo utile. A volte qualche escursionista temerario o incosciente arriva fin quassù vagando disperso. E allora son felice di poter conversare, di raccontare le mie storie, di condividere i beni e il calore della mia caverna mentre fuori è notte di tormenta. Mi piace ricordarmi di quand’ero un uomo anch’io, tanto tempo fa. Ma questo non è il loro posto, giunta l’alba tornano dabbasso nel loro mondo. E ci salutiamo con degli arrivederci; ma sono sempre addii

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1588. Reminiscenze (2006)

Sapete, oggi ho aperto un cassetto e ci ho trovato… la “Mia Felicità”. Me l’ero praticamente dimenticata! Si era talmente assuefatta al buio, che per un bel pezzo s’è tutta raggomitolata perché la luce la feriva. Non mi ricordavo neppure più di che colore fosse, tant’è che per un attimo ho dubitato persino fosse davvero la mia. Al momento ho pensato che qualcuno, transitando per la mia vita, l’avesse lasciata là per distrazione. Era rimasta davvero tanto tempo chiusa li dentro; infatti, era tutta sgualcita e con un tanfo insopportabile di naftalina addosso. Mi sono quindi sforzato inutilmente, di rammentare l’ultima volta che l’avevo indossata: perché dovete sapere che l’ho messa veramente rarissime volte. Di solito indosso Felicità imprestatemi da amici e ragazze. Sapete com’è che succede, per cortesia, e per dimostrare di aver gradito il pensiero gentile, si finisce per abbigliarsi sempre con le Felicità altrui, trascurando la propria. Magari fai a cambio, e la tua te la maltrattano tutta. Poi finisce che un giorno se ne vanno e allora, poichè giustamente la loro gli occorre, ti tocca ridargliela indietro. Onestamente ero convinto addirittura di averla smarrita. Che chissà chi, l’avesse messa in valigia nella foga della partenza e se la fosse portata via. Così l’ho tirata fuori delicatamente e l’ho portata in giardino a prendere aria. L’ho spiegata al sole e me la sono rimirata tutta. Che bella la “Mia Felicità”, ne ho scrutato ed apprezzato ogni minimo dettaglio e particolare. Me ne sono passate tante di Felicità per le mani, ma la “Mia Felicità”, dite pure quello che vi pare, è la più bella di tutte! L’ho stesa sul tavolo e l’ho accarezzata con cura, per far sparire tutte le pieghe. Anche l’odore, al sole e all’aria, è svanito. Alla fine tutto soddisfatto me la sono tirata indosso! Non vi posso descrivere che magnifica sensazione mi ha trasmesso quel contatto; divina oserei dire! Quale benessere, quale freschezza, quale morbidezza impalpabile: la seta sembrerebbe carta vetrata al confronto! Nessun termine di paragone con quelle che portavo di solito, neanche alla lontana… E poi volete mettere, con quella paura di rovinarle perchè non sono tue, con quelle continue fastidiose raccomandazioni di averne cura, ti sembrano più camicie di forza che altro. Ero così soddisfatto, che ho deciso di andarmici a fare un giro, così, tanto per sfoggiarla un pò! Sì, lo sò, è un pò da vanèsi, ma che ci volete fare, un pizzico d’orgoglio per la “Mia Felicità” è legittimo, non trovate?
Ce ne siamo andati beatamente a zonzo per la città tutto il giorno, chiacchierando e scherzando l’intero tragitto (a proposito, la “Vostra Felicità” vi parla mai?) Io e la “Mia Felicità” sembriamo proprio fatti l’uno per l’altra, non è mai mancata la risata, ne gli argomenti di conversazione. Ed è un acutissima osservatrice per giunta! Mi ha fatto notare un sacco di cose che mi ero dimenticato, tipo che il cielo è azzurro, che l’erba è verde, che le mosche fanno “bzzz” e addirittura che i fiori profumano e di profumi diversi l’uno dall’altro. Ci siamo sdraiati su di un prato e abbiamo giocato a riconoscere le forme nelle nuvole: che rabbia! Era sempre più brava di me, ci metteva un attimo a dire quello che vedeva e oh, ci azzeccava sempre! E non potevo nemmeno barare, perchè alla “Mia Felicità” non posso dirgli bugie, se ne accorge subito e me lo fà capire con un sorrisetto particolare. Sulla strada di ritorno, mi ha chiesto cosa avevo fatto in tutto quel tempo che l’avevo lasciata sola, ma senza tono di rimprovero; è sensibile la “Mia Felicità”. E stata comprensiva, e ha sciolto il senso di colpa che provavo nei suoi confronti. Così senza pudori ed imbarazzi, gli ho raccontato tutto. S’è un pochino rabbuiata a sentire tutte quelle storiacce, ma quando gli ho svelato le mie paure, preoccupazioni e problemi contingenti mi ha fatto un sorriso più grande e smagliante che mai, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: “Coraggio che ce la fai, ce l’hai sempre fatta, e io ci sono sempre, io sono tua no?”. Con una strizzatina d’occhio ha poi cambiato molto discretamente argomento. Gliene sono stato grato, è proprio una Grande la “Mia Felicità”! Giunti a casa, me la sono tolta, l’ho abbracciata e baciata tutta e l’ho ringraziata per la splendida compagnia. Infine l’ho ripiegata con cura e l’ho riposta nel cassetto. Lei non ha fiatato, tutte le Felicità lo sanno che quello è il loro destino. Non si possono portare sempre indosso sennò si sciupano e sbiadiscono. Bisogna usarle con parsimonia in modo che durino per tutta la vita. Sai che casino perderne una, e mica le vendono nei negozi!? Bene che ti vada ti tocca trovare un generoso disposto a fare un pò per uno, ma devi essere tanto fortunato. Poi cè pure chi le ruba, ma di certo io non sono il tipo. Ci siamo sorrisi un ultima volta e gli ho detto ciao, e lei mi ha risposto: “Ricordati più spesso di me, guardami, sono seminuova da quanto poco mi hai usato!”. Così mi sono messo a letto, con ancora un sorriso sereno sulle labbra, e rammento che l’ultimo pensiero prima di addormentarmi è stato: “Me ne ricorderò… “

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La mia immaginazione è un monastero e io sono un monaco. (John Keats)

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1584. Daisy, ovvero “La fiaba dell’autostima” (2/2/2015)

In mezzo ad un cespuglio di rose rosse, nacque per caso una margherita. Una margherita che crebbe nella convinzione di essere anch’essa una rosa.
Finché un bel giorno, un ape pettegola, non le svelò la verità canzonandola. Lei, che conosceva solo rose, prese molto male la notizia della propria diversità. Si disperò e si disperò allorché non le sovvenne una strana idea. Chiese quindi ad un bruco di ritagliarle le foglie, alle farfalle di ridipingerle il bianco ed il giallo con la polvere delle loro ali, ad un ragno di legarle insieme stretti i petali, e ad una vespa di costruire delle spine lungo il suo stelo. Si rallegrò oltremodo della propria genialità, adesso che finalmente somigliava ad una rosa. L’orgoglio le imponeva di manifestare soddisfazione! E questo lasciò trasparire, con continui proclami di ipocrita felicità, alle sue compagne rose. Nonostante ciò, qualcosa nel suo animo non smetteva di tormentarla di tristezza. Ma invece di soffermarsi ad ascoltare cosa quel dolore avesse da dirle, decise di ignorarlo ed esorcizzarlo. Passò così l’intera sua esistenza a declamare a chiunque vi si imbattesse, con toni vieppiù accesi, quanto le rose fossero più belle di tutti gli altri fiori. Soprattutto, neanche a dirlo, delle orribili margherite.
Giunse alfine il giorno della dipartita per il nostro fiorellino. Dopo il trapasso ella andò difilato a bussare al paradiso delle rose, ma non la fecero entrare; le dissero che era una rosa troppo bizzarra e diversa da loro per star lì. Allora amareggiata e riluttante si recò al paradiso delle margherite. Ma anche qui, purtroppo per lei, non ci fu nulla da fare; intanto non sembrava affatto una margherita, inoltre aveva speso l’intera vita a parlar male di loro.
Senza un posto in cui stare, quella margherita ora fluttua, eternamente sola, nell’oscuro regno che si stende tra l’essere ed il non-essere: fantasma senza identità.
E dire, che in vita, le era stato dato d’essere una margherita di rara bellezza…

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In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. (Carl Gustav Jung)

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1580. Chi cerca, trova!

C’era una volta uno scienziato pazzo, da sempre oltremodo affascinato dai maiali. Era strenuamente convinto essi fossero strettissimamente imparentati con l’essere umano. Tanto strettamente, da arrivare a pensare, il maiale, non fosse altro che un essere umano affetto da una sorta di malattia genetica invalidante. Si risolse così, già in giovane età, di trovare una cura a questo, secondo la sua follia, morbo terribile. Passò dunque la vita a studiare, e i maiali, e tutto lo scibile di ogni campo e materia; alla ricerca della giusta intuizione che lo avrebbe portato alla gloriosa soluzione finale. E sperimentava, sperimentava, indefesso e instancabile. Ed era talmente concentrato e rapito dalla sua ricerca e dai suoi tentativi, da non accorgersi di ciò che gli stava accadendo. Fu così che un giorno si recò come di consueto in laboratorio per condurre l’ennesimo esperimento. Con il solito euforico entusiasmo di chi è assolutamente certo di essere addivenuto alla chiave di un grande arcano. L’indomani, la donna delle pulizie arrivò per svolgere la sua routinaria attività. Entrò nel laboratorio, e non si stupì di vedere un altro suino all’interno della teca di plexiglass; bell’ e pronto per fare da soggetto alle strampalerie del professore. Cominciò con noncuranza a spolverare e lucidare come d’abitudine. Poi ebbe la strana sensazione di essere osservata. Si voltò di colpo, e un grugnito accompagnò il suo urlo di trasalimento. Un maiale era lì, libero nella stanza, proprio dietro di lei a fissarla. Aveva indosso un camice bianco

1378. Mare nostrum

Durante la navigazione il mare cominciò a montare e si accorsero che stavano imbarcando acqua. Iniziarono così a discutere animatamente, esponendo ognuno le proprie ragioni, se fosse meglio andare avanti o tornare indietro. Ma nel frattempo, la burrasca aumentò di intensità. L’imbarcazione venne allagata completamente e affondò; e quelli annegarono. Si salvò solo il cane, l’unico che avvertì prontamente il pericolo e si gettò per tempo tra i flutti per raggiungere la riva

1256. Ricordi miliari

Era un pomeriggio della primo metà del primo decennio del XXI secolo quando varcai come al solito la soglia del negozio di informatica con cui collaboravo. Il mio amico e socio mi accolse con un ghigno che prometteva qualcosa di bizzarro da comunicarmi. Ed infatti esordì con un “Devi andare a fare assistenza in un convento”, seguito dalle più fragorose risate, sue e mie. Era ancora l’epoca in cui non esisteva l’iphone e neppure facebook. L’epoca in cui i computer, o lasciavano indifferenti, o erano letteralmente detestati da chi era costretto ad utilizzarli per lavoro, dalla stragrande maggioranza della popolazione. All’epoca, oltre a nettissime idee politiche ed etiche avulse da qualunque forma di trascendenza, nutrivo un anticlericalismo radicale in forma di vera e propria fobia dermatologica. Potete immaginare la mia “felicità” nel prestare i miei servigi al nemico. Ci fu tutto uno scambio di battute e battutacce ilari con l’amico, che era della mia stessa parrocchia, e poi mi avviai di malavoglia al convento. In realtà non lo sembrava affatto, era un minuscolo palazzetto moderno incastrato tra altri palazzetti simili. Ai tempi ancora neppure fumavo, ma tergiversai comunque un po prima di citofonare. Ci volle qualche minuto prima che una giovane suora vestita di grigio chiaro e blu mi venisse ad aprire. Mi disse che non era lei che si occupava dei computer e mi accompagnò al primo piano, lasciandomi in attesa in quello che appariva come il refettorio. Nulla più di una grande stanza imbiancata con pochissimo mobilio ed un grande, ma non enorme, tavolo da pranzo. Nell’attesa mi chiedevo sconcertato cosa caspita se ne facessero in una minuscola comunità di suore dei computer. Mi si fa incontro un altra suora, evidentemente sulla settantina, bassina e robusta, occhiali dorati sulla punta del naso, le maniche della camicia rimboccate ed un fare energico che stonava assolutamente con il ruolo che rivestiva. Si avvicina sorridente, mi stringe vigorosamente la mano, si presenta e mi invita a seguirla. Mentre la inseguo nel corridoio già mi comincia a spiegare la situazione dandomi del tu. Entriamo in un altra stanza che è il suo ufficio, che in realtà condivide con altre consorelle che sta istruendo. Un ampio ambiente con scrivanie addossate alle pareti a formare un unico piano quasi perimetrale. Mensole ovunque e un allestimento tecnologico che mi lascia sorpreso; computer, fax, stampanti, fotocopiatrice ma soprattutto la connessione ad internet, affatto comune ai tempi. Fatico a collegare mentalmente quella suora anziana a tutto quel popò di allestimento. Continuo a guardarmi intorno mentre lei mi parla con fare affabile spiegandomi di cosa si occupa e quali problemi le devo risolvere. Rimango attonito dalla personalità e dalla competenza di quella sorprendente e simpaticissima suorina. La conversazione si allarga ad altri argomenti e comincia a diventare interessante. Così finisce per raccontarmi che era missionaria in Brasile e che l’hanno rispedita da non molto in Italia per salvarle la vita (NdR: o forse il motivo vero era un altro), poiché faceva la barricadera militante in difesa dei contadini contro i latifondisti. A questo punto provo una strana sensazione conflittuale, i miei pregiudizi che si scontrano con una spontanea ammirazione per quella donna che ha fatto una così, ai miei occhi, infelice e “sbagliata”scelta di vita. Da interessante la conversazione diventa addirittura piacevole e parliamo di attualità e politica trovando punti di vista e analisi comuni e condivisi. Il tutto senza mai mettere in campo Dio. Solo a questo punto la mia attenzione viene attirata da un quotidiano appoggiato su un ripiano… L’Unità. E poi faccio caso che ci sono quotidiani ovunque, dal Manifesto al Secolo. La mia faccia deve essere risultata buffissima trasfigurata dallo sbigottimento. Con un espressione sorniona mi fissa da sopra gli occhiali e mi fa ammiccando: “Per sapere la verità, mica penserai che basti leggere l’Osservatore Romano!?”. Mi congedo. Ci siamo rivisti in seguito un paio di altre volte e poi più. Eppure quelle tre ore di quel giorno le porto impresse indelebili, perché mi hanno cambiato radicalmente. Rendendomi meno rigido nelle mie posizioni preconcette e assai più cauto nelle valutazioni e nei giudizi. E questo mi è stato di enorme utilità nella comprensione delle cose e delle persone nel prosieguo della mia vita.

0918. Incontri virtuali

Capita, su di un campo in cui le condizioni negano la possibilità di scorgere oltre la rete, di tirare un servizio che viene ribattuto in maniera magistrale. Sorpreso ribatti, ed ancora una volta la risposta è perfetta. Eccitato continui a battere e dall’altra parte ribattono senza mai lasciarsi sfuggire un colpo. Ammirato, cominci a tirar fuori il meglio della tua tecnica, e di là rispondono ancora e sempre in maniera impeccabile. Allora cominci ad immaginare un grandissimo campione dall’altro lato del campo; fin quasi ad innamorarti di quell’immagine. Se non che, ad un certo punto quell’avversario non lo trovi più. E allora incominci a giocare con nuovi bravissimi giocatori. Sinché dopo un po di tempo ti sorge un vago sospetto, che lentamente si tramuta in certezza, osservando con attenzione le partite di altre persone con quel medesimo avversario invisibile. Così, finalmente, ti rendi conto fulmineamente dell’ironica realtà: che quello dall’altra parte della rete non era altro che semplicemente un muro, un mucchio di mattoni inerti. Non era dunque la partita del secolo, quella che stavi giocando, contro il migliore avversario avessi incontrato; era solo una sfida con te stesso, in cui l’unico vero autentico campione in campo eri tu. Allora ridi della tua dabbenaggine e non riesci più a smettere.

0893. Er filosofo e l’ombrico (Reblogged for Biagina Danieli)

S’arivorse un dì er filosofo a un lombrico:
Piuttosto che parlà co’ttè, me ne sto senza amico!
Che bestia inutile che sei, quanto fai schifo,
Stamme lontano che m’attacchi er tifo.
Tutta la vita passi gnudo a magnà terra
Senza conosce er monno e la sua guerra
Sempr’allo scuro stai nell’ignoranza
C’hai n’unico pensiero: de riempì la panza!

Je rispose er lombrico carmo e soridente:
Puro si tu pensi, ed io nun c’ho la mente,
Puro si tu c’hai la gloria ed io nun faccio storia
Pe quanto a te te possa sembrà strano,
Più de quanto credi noi se somijamo
Sempre a capo chino stai nello studiolo
Che chi te vede mai? Stai sempre solo
Cor moccolotto acceso rumini parole
Quanno lo guardi mai n’faccia er sole?
Magno terra è vero ma te de mejo che fai?
Uguale a magnà libri tutto er tempo stai
A partorì sentenze altisonanti
Che lascino stupiti posteri ed astanti
Sei inutile come me, nun ce giramo n’torno
Quello che manni giù pe tutto er giorno
Poi lo ricachi tale e quale tutt’attorno
L’unico modo pe capì che sei de n’antra schiatta
È de vedette n’cattedra c’ar collo na cravatta
Dimosela tutta, tu la gente la cojoni
Basta ammucchià m’po de paroloni
Ma poi in definitiva che d’è sta verità?
St’etica, sta libertà, sta perfezione de felicità?
Si pe millenni niuno l’ha trovata
Me sa ch’è solo er modo d’arivòrta la frittata
Sicché m’hai pure criticato, perché me ne sto m’pace sotterato
La guera armeno io nun la fomento co quarche grande e splendido argomento
Nun me’nvento facili ideali pe fa scannà l’ommini fra loro come maiali
Ne vado predicanno ideologie solo pe riempì le saccoccie mie
Te vorrei di n’urtima cosa, prima che m’affonno
Che na criatura p’esse degna de sta ar monno
Nun c’ha bisogno de sapè s’è quadro o tonno
Primariamente ha da’mparà stima e rispetto
Invece d’annà in giro, a pijà l’artri de petto

0843. Manicomio

Tengo una bestiaccia chiusa in cantina: un mostro che si contorce, si dimena, sbatte, spacca, rompe, corre di qua e di là lanciandosi contro i muri e contro la porta, addenta le sbarre, piange, ringhia, urla, sbraita, impreca, bestemmia, prega, si taglia, si morde, si strappa capelli e carne, va in catalessi e poi ricomincia, sbrana feroce qualunque cosa gli capiti a tiro e poi digiuna a oltranza. Un vero pazzo furioso. Cazzo, e fortuna che è l’Amore…

0841. Lamentazione d’Oisìn

Mi dicesti: “Non aspettare ciò che non aspetta!”. Ma non capii e ti risposi: “Vado solo ad attendere a ciò che non m’attende!”; per amore persi l’amore. Tu tacesti e con occhi velati mi porgesti le redini di Embarr ed una raccomandazione; per amore perdesti l’amore. Non era presto, non era tardi, era ora, era sempre, era Tir na nÓg. Mi smarrii, cavalcando ignaro sulle onde del tempo, ed esanime caddi nella misera terra. Ed era tardi, ed era mai, non più Tir na nÓg. C’era scritto Niamh, sulla lapide d’un rimpianto consunta dai secoli, quando i bardi più non cantarono. Per amore perdemmo l’amore.

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Cum sit enim proprium/ viro sapienti/ supra petram ponere/ sedem fundamenti/ stultus ego comparor/ fluvio labenti,/ sub eodem tramite/ nunquam permanenti./ Feror ego veluti/ sine nauta navis,/ ut per vias aeris/ vaga fertur avis;/ non me tenent vincula,/ non me tenet clavis

Archipoeta – estratto da “Estuans interius”

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