2084. L’uomo di Kalsoy (19/2/2017)

E’ in una rara limpida alba che l’uomo esce dal tunnel di Trøllanes per raggiungere Kallur. Siede sull’erica e poggia le spalle al faro. Rumorose pulcinelle di mare, qualche pecora, invadono a tratti lo sguardo, perso tra i riflessi scintillanti di neve del Grislatindur e quelli più cupi delle onde nel Kalsoyarfjørður. L’uomo è stanco, vede. Vede la follìa risalire come gelida bruma, da quell’oceano nebbioso d’immaginazione, lungo i fianchi diruti delle scogliere ch’emergono a picco sulla solitudine. Nella caligine presagisce nitida la cagione della millenaria faida di vittime e carnefici; i quali si scambiano favori e ruoli in un eterna tenzone tra esseri del mare e della terra che non si scorgono ne riconoscono. Subitaneamente capisce d’essere prigioniero di quell’isola, incatenata da Rhiannon tra la fantasia e la realtà insieme a tutti i suoi abitanti. L’uomo ad occhi aperti adesso sogna, non più selkie e sirene ma le ali dell’albatro, per poter scavalcare i recinti d’ogni orizzonte

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Idir cósta, idir cléibh
Idir mé is idir mé féin
Tá mé i dtiúin

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2065. Adiacenze, ovvero “Trappole ideali” (11/1/2017)

Una pecora rivoluzionaria si accorse un giorno di essere prigioniera, insieme alle altre, dietro un lungo steccato. Allora tanto disse e tanto fece, tanto si adoperò, sinchè non riuscì a scavalcarlo. Eccitata dalla nuova posizione, che aveva faticosamente conquistato, da quel momento non fece altro che prodigarsi nel predicare alle sue compagne, attraverso la staccionata, di quanto fosse bella la libertà, e a cercare di convincerle a seguirla. E così, infervorata e distratta, sempre gli sfuggì di esser solo finita nel recinto accanto

2032. Il mito di Theuth… o di Interneuth!? (18/7/2017)

Socrate – Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dei del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, del calcolo, della geometria e dell’astronomia per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth, sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto: «Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria». E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti».
Fedro – Fai bene a darmi addosso; anch’io son del parere che riguardo l’alfabeto le cose stiano come dice il Tebano.
Socrate – Dunque chi crede di poter tramandare un’arte affidandola all’alfabeto e chi a sua volta l’accoglie supponendo che dallo scritto si possa trarre qualcosa di preciso e di permanente, deve essere pieno d’una grande ingenuità, e deve ignorare assolutamente la profezia di Ammone se s’immagina che le parole scritte siano qualcosa di più del rinfrescare la memoria a chi sa le cose di cui tratta lo scritto.
Fedro – È giustissimo.
Socrate – Perché vedi, o Fedro, la scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi.
Fedro – Ancora hai perfettamente ragione.
Socrate – E che? Vogliamo noi considerare un’altra specie di discorso, fratello di questo scritto, ma legittimo, e vedere in che modo nasce e di quanto è migliore e più efficace dell’altro?
Fedro – Che discorso intendi e qual è la sua origine.
Socrate – Il discorso che è scritto con la scienza nell’anima di chi impara: questo può difendere se stesso, e sa a chi gli convenga parlare e a chi tacere.
Fedro – Intendi tu il discorso di chi sa, vivente e animato e del quale questo che è scritto potrebbe dirsi giustamente un’immagine?
Socrate – Sì, proprio questo.

Platone, Fedro, 274-276AC

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2010. Danza macabra dell’intelligenza (10/11/2011)

Quello che davvero ti frega in questo mondo di merda, è il non poterne ignorare la Bellezza. Non tanto la Bellezza plateale, opulenta e ostentata che potresti tranquillamente catalogare come sottile inganno dell’Esistenza. No, non quella! L’altra… quella che scorgi inaspettata e shockante quando, magari distrattamente, ti metti a grattare la crosta di Orribile e Terribile che ricopre il mondo. Eccolo, il Sublime! Ti rapisce l’Anima e ti spezza a colpi di Emozioni, una ad una, tutte le ossa della Ragione. Il Sublime alimenta il tarlo del Dubbio che rode e rosicchia ogni certezza, ogni verità(sic!). Come si vivrebbe meglio senza Speranza…
E invece no: la Bellezza…
“E se mi sbagliassi?” – “E se questo orrore che mi circonda da ogni lato, che mi offende, fosse solo una maschera, una patina di sporco che riveste qualcosa di meraviglioso?”
Si può morire di certezze, ma di dubbi non si può far altro che vivere; e cercare, e viaggiare, e scavare. E a volte, forse, trovare…

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1830. Sarei potuto essere… (20/5/2015)

I cigni nascono tutti uguali, tutti grigi, tutti con lo stesso cuore di poeta. E’ poi che si sceglie da quale parte stare. Sarei potuto essere un avvenente cigno nero. Un piccolo tuffo in una pozza d’inchiostro e giù a scarabocchiare grovigli di belle parole tessute sulla trama del nulla. Già, sarei potuto essere un affascinante cigno nero, e vi avrei incantato parlandovi, infuocato e dolente, della maledizione dell’Uomo; benedicendola però in segreto. Avrei covato amorevole quel vuoto, che la vita ci chiede invece di colmare, perchè ne avrei fatto la mia ricchezza. Mi avreste visto accompagnarmi per l’aia insieme al pavone, ed estasiati non avreste saputo chi ammirare di più. Ho deciso altrimenti, di essere bianco! Sono sporco anch’io, come tutti vivo in mezzo al luridume e agli schiamazzi del cortile. Solo, silenzioso, in un angolo defilato, passo le giornate a lisciarmi con infinita pazienza le penne, per cercare di mondarle dal sudiciume. Sì, sarei potuto essere un maestoso cigno nero, ma mi sarei andato a nascondere all’arrivo del temporale, per paura che la pioggia potesse lavar via il nero, e mostrarvi il niente sotto. E invece ho deciso di essere bianco, e sferzato dall’acqua battente mi dispiego ed intono canti di ringraziamento. Non lo nego, sarei potuto essere un magnifico cigno nero, ed amare questo spiazzo squallido e nauseante. Io invece lo disprezzo, e non faccio altro, mentre cresco, che sognare il lago cristallino in cui un giorno mi immergerò. La cui acqua mi purificherà per sempre. Quel giorno in cui il vuoto sarà colmato e sarò forte.

Con ali di ghiaccio mi leverò in volo
Il sole mi trasformerà in nuvola
Il vento mi mescolerà al cielo
E nei vostri ricordi
Di me rimarrà solo
Qualche fiocco di neve

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“Nient’altro che del bianco a cui badare” (Arthur Rimbaud)

1823. Magìa e magie, ovvero “Equivoci paradossali” (14/5/2015)

Credo non si possa dubitare sia Edonista, nel modo più becero, l’anima della società attuale. Ed’è proprio l’Edonismo la via più radicalmente incompatibile con la Magìa. Non perchè la Magìa rinneghi la mondanità, platealmente parte inscidibile della Vita, ma perchè essa è volta al raggiungimento di dimensioni più elevate rispetto alla Realtà comunemente percepita. Dimensioni impossibili da raggiungere senza necessariamente alleggerirsi del fardello della morbosità negli attaccamenti materiali. Eppure chi è più interessato alla Magìa è proprio l’Edonista, che morboso per intrinseca natura, ambirebbe avidamente farne lo strumento principe nel raggiungimento dei propri scopi: modificare la Realtà a suo capriccio e beneficio

1751. Sognare imperfetto (20/7/2017)

Sicchè tu dici, “voglio cambiare”. Ma davvero… eppure tutto intorno a te già cambia incessantemente, tanto che neppure tu sei lo stesso di un nanosecondo fa; e nessuno ti chiede certo il permesso acchè ciò avvenga, ne te ne viene recapitata notifica. Dire che “vuoi cambiare” ha la medesima valenza e costrutto dell’affermazione opposta. La verità è che menti a te stesso, che la tua mente infantile e magica sta solo escogitando un rito apotropaico per esorcizzarlo, quello spettro del cambiamento che tanto ti inquieta; quel testimone scomodo della tua impotenza nei confronti del tempo. Pensi che attraverso un atto esteriore tu possa nasconderti dal divenire, convincerlo a lasciarti stare, e convincere te stesso di avere il pieno controllo sull’ignoto e sul noto che poco ti piace. No, tu non vuoi cambiare, tu hai una paura fottuta di cambiare: tu vuoi soltanto trovare un modo per sistemare alla bene e meglio le cose, appiccicando toppe, in modo che la realtà si pieghi al tuo ancorarti all’idea che hai di essa e di te stesso. Puerile follia! Se tu volessi davvero cambiare saresti già cambiato, non avresti bisogno di ingegnarti su un da farsi improbabile e radicale, ne di proclamarlo. Saresti entrato silenziosamente nel flusso degli eventi accettandoli, agevolandoli… comprendendoli! Navigheresti a vista, godendoti l’esperienza del viaggio, decidendo la rotta e gli scali adattandoli al momento in base al mutare del tempo e dei venti, e non al capriccio di raggiungere ad ogni costo uno specifico luogo tirato fuori dal bussolotto dell’immaginazione. Saresti libero e responsabile nella consapevolezza del tuo destino, ovvero di ciò che sei nei limiti che ti definiscono; e che cambiano anch’essi senza requie ed al di fuori dei tuoi desideri e volontà. In breve, non avresti nessuna paura da mascherare, a te stesso e agli altri, nelle forme del gesto eclatante.

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“Ci sono due tipi di sofferenti a questo mondo: quelli che soffrono per una carenza di vita e quelli che soffrono per una sovrabbondanza di vita. Io mi sono sempre ritrovato nella seconda categoria. Se ci pensi un attimo, quasi tutti i comportamenti dell’uomo e le sue attività in sostanza non sono diverse da quelle degli animali. Le più avanzate tecnologie e la nostra abilità artigiana ci portano al livello dei super-scimpanzé, non di più. In realtà la differenza fra, diciamo, Platone e Nietzsche e l’uomo medio, è maggiore di quella che esiste fra lo scimpanzé e l’uomo medio. Il regno del vero spirito, del vero artista, del santo, del filosofo, sono in pochi a raggiungerlo. Perché così pochi? Perché la storia del mondo e l’evoluzione non sono esempi di progresso ma piuttosto un’infinita e futile addizione di zeri? Non si sono sviluppati i valori più importanti. Diamine, i Greci 3000 anni fa non erano certo meno progrediti di noi. Allora quali sono le barriere che impediscono all’essere umano di arrivare per lo meno vicino al suo vero potenziale? La risposta a questa domanda la si può trovare in un’altra domanda. Qual è la caratteristica umana più universale? La paura. O la pigrizia. ” (Citazione dal Film “Waking Life”)

1728. E sono come il cielo (22/5/2015)

E sono come il cielo,
Che nulla possiede ma tutto è suo
E ciò che perdo continua a respirarmi
E sono come il cielo,
Che crea orizzonti per i temerari
E vastità per i sognatori
E sono come il cielo,
Che innalza e precipita
Capriccio e passione di temporale
E sono come il cielo,
Che si vela di cupi pensieri
E poi li piange per ridipingere il mondo
E sono come il cielo,
Goccia d’infinito che sogna un infinito più grande
Vuoto silenzio che contiene tutto ciò che c’è da sapere
E sono come il cielo,
Libero come il vento che non puoi fermare
Solo come il vento che sempre passa e mai sosta
E sono come il cielo,
Quando specchiandomi vedo nei miei occhi
Il sole brillare oltre l’azzurro

1676. Il suonatore di ghironda (24/6/2015)

Mentre passeggio, una musica mi richiama dalle profondità del pensare. Volto lo sguardo in quella direzione e scorgo un piccolo capannello di persone. Mi avvicino e mi unisco agli altri. Tutti in semicerchio, e mi chiedo secondo quale legge ci si disponga naturalmente ad una specifica distanza dagli artisti di strada che si esibiscono. Forse sarebbe importante misurarla, chissà. Eccolo, l’artista, un uomo senza età e senza identità; capelli lunghi brizzolati e barba a camuffarne i lineamenti. Occhi saettanti, inafferrabili, mani agili e rugose. Vestito sdrucito e scuro, con sopra una palandrana di lana del ricordo del bianco; rammendata e colma di toppe, come la veste dei sufi. Gli stivali di pelle che battono e raccontano la storia di un viaggio interminabile. Sta seduto su di un basso scranno e sembra, nel suo non possedere nulla, nel suo non avere una casa, nel suo distacco ieratico, il Signore del Mondo. Davanti a lui, in terra, un basco sformato pronto a raccogliere la scarsa gratitudine umana ed un bastone che sembra fatto della stessa essenza della sua pelle. Ha un bizzarro strumento in braccio, che mentre lo osservo suonare suscita curiose allegorie nella mia immaginazione. Vedo la mano girare la manovella, mettere in moto la ruota; e mi sembra di veder creare il Tempo stesso, ritmo circolare ed Eterno. La ruota mette in vibrazione le corde che costituiscono la trama della Realtà, e l’altra mano pigia i tasti delle Leggi Universali, intenta a tradurre le idee in musica; alla creazione armonica infinita, con poche note combinate e ricombinate, di qualcosa sempre nuovo e bello. Bisognerebbe vederlo quest’uomo, studiarne le espressioni, totalmente rapito ed estasiato mentre partorisce ed esplora i propri mondi interiori e tenta di narrarli. I suoi sensi sono rivolti a percepire una dimensione altra, non è più di questo mondo; non ha più nome ne biografia…
Le melodie si dipanano, amplificate dalla grande cassa armonica, dallo spazio concettuale in cui è racchiuso l’esistente, e magicamente gli spettatori in qualche modo ipnotizzati, ne riecheggiano emozionalmente i temi. Sorrisi seguono composizioni sentimentali, sguardi corrucciati quelle austere, occhi lucidi le malinconiche, movimenti ritmati del corpo le gioiose. E quando la musica brevemente si interrompe, li vedi confusi, non riescono a capire se si sono ridestati o stanno per addormentarsi, in bilico sulla linea che separa due fantasie; la consapevolezza dall’incoscienza.
Oggi, ne sono certo, ho visto Dio suonare la ghironda

Quando nei confronti dei rapporti umani si fa uso dell’armonia, del ritmo e della comprensione intima dell’altro, ciò è come far della musica. (Platone)

1588. Reminiscenze (2006)

Sapete, oggi ho aperto un cassetto e ci ho trovato… la “Mia Felicità”. Me l’ero praticamente dimenticata! Si era talmente assuefatta al buio, che per un bel pezzo s’è tutta raggomitolata perché la luce la feriva. Non mi ricordavo neppure più di che colore fosse, tant’è che per un attimo ho dubitato persino fosse davvero la mia. Al momento ho pensato che qualcuno, transitando per la mia vita, l’avesse lasciata là per distrazione. Era rimasta davvero tanto tempo chiusa li dentro; infatti, era tutta sgualcita e con un tanfo insopportabile di naftalina addosso. Mi sono quindi sforzato inutilmente, di rammentare l’ultima volta che l’avevo indossata: perché dovete sapere che l’ho messa veramente rarissime volte. Di solito indosso Felicità imprestatemi da amici e ragazze. Sapete com’è che succede, per cortesia, e per dimostrare di aver gradito il pensiero gentile, si finisce per abbigliarsi sempre con le Felicità altrui, trascurando la propria. Magari fai a cambio, e la tua te la maltrattano tutta. Poi finisce che un giorno se ne vanno e allora, poichè giustamente la loro gli occorre, ti tocca ridargliela indietro. Onestamente ero convinto addirittura di averla smarrita. Che chissà chi, l’avesse messa in valigia nella foga della partenza e se la fosse portata via. Così l’ho tirata fuori delicatamente e l’ho portata in giardino a prendere aria. L’ho spiegata al sole e me la sono rimirata tutta. Che bella la “Mia Felicità”, ne ho scrutato ed apprezzato ogni minimo dettaglio e particolare. Me ne sono passate tante di Felicità per le mani, ma la “Mia Felicità”, dite pure quello che vi pare, è la più bella di tutte! L’ho stesa sul tavolo e l’ho accarezzata con cura, per far sparire tutte le pieghe. Anche l’odore, al sole e all’aria, è svanito. Alla fine tutto soddisfatto me la sono tirata indosso! Non vi posso descrivere che magnifica sensazione mi ha trasmesso quel contatto; divina oserei dire! Quale benessere, quale freschezza, quale morbidezza impalpabile: la seta sembrerebbe carta vetrata al confronto! Nessun termine di paragone con quelle che portavo di solito, neanche alla lontana… E poi volete mettere, con quella paura di rovinarle perchè non sono tue, con quelle continue fastidiose raccomandazioni di averne cura, ti sembrano più camicie di forza che altro. Ero così soddisfatto, che ho deciso di andarmici a fare un giro, così, tanto per sfoggiarla un pò! Sì, lo sò, è un pò da vanèsi, ma che ci volete fare, un pizzico d’orgoglio per la “Mia Felicità” è legittimo, non trovate?
Ce ne siamo andati beatamente a zonzo per la città tutto il giorno, chiacchierando e scherzando l’intero tragitto (a proposito, la “Vostra Felicità” vi parla mai?) Io e la “Mia Felicità” sembriamo proprio fatti l’uno per l’altra, non è mai mancata la risata, ne gli argomenti di conversazione. Ed è un acutissima osservatrice per giunta! Mi ha fatto notare un sacco di cose che mi ero dimenticato, tipo che il cielo è azzurro, che l’erba è verde, che le mosche fanno “bzzz” e addirittura che i fiori profumano e di profumi diversi l’uno dall’altro. Ci siamo sdraiati su di un prato e abbiamo giocato a riconoscere le forme nelle nuvole: che rabbia! Era sempre più brava di me, ci metteva un attimo a dire quello che vedeva e oh, ci azzeccava sempre! E non potevo nemmeno barare, perchè alla “Mia Felicità” non posso dirgli bugie, se ne accorge subito e me lo fà capire con un sorrisetto particolare. Sulla strada di ritorno, mi ha chiesto cosa avevo fatto in tutto quel tempo che l’avevo lasciata sola, ma senza tono di rimprovero; è sensibile la “Mia Felicità”. E stata comprensiva, e ha sciolto il senso di colpa che provavo nei suoi confronti. Così senza pudori ed imbarazzi, gli ho raccontato tutto. S’è un pochino rabbuiata a sentire tutte quelle storiacce, ma quando gli ho svelato le mie paure, preoccupazioni e problemi contingenti mi ha fatto un sorriso più grande e smagliante che mai, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto: “Coraggio che ce la fai, ce l’hai sempre fatta, e io ci sono sempre, io sono tua no?”. Con una strizzatina d’occhio ha poi cambiato molto discretamente argomento. Gliene sono stato grato, è proprio una Grande la “Mia Felicità”! Giunti a casa, me la sono tolta, l’ho abbracciata e baciata tutta e l’ho ringraziata per la splendida compagnia. Infine l’ho ripiegata con cura e l’ho riposta nel cassetto. Lei non ha fiatato, tutte le Felicità lo sanno che quello è il loro destino. Non si possono portare sempre indosso sennò si sciupano e sbiadiscono. Bisogna usarle con parsimonia in modo che durino per tutta la vita. Sai che casino perderne una, e mica le vendono nei negozi!? Bene che ti vada ti tocca trovare un generoso disposto a fare un pò per uno, ma devi essere tanto fortunato. Poi cè pure chi le ruba, ma di certo io non sono il tipo. Ci siamo sorrisi un ultima volta e gli ho detto ciao, e lei mi ha risposto: “Ricordati più spesso di me, guardami, sono seminuova da quanto poco mi hai usato!”. Così mi sono messo a letto, con ancora un sorriso sereno sulle labbra, e rammento che l’ultimo pensiero prima di addormentarmi è stato: “Me ne ricorderò… “

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La mia immaginazione è un monastero e io sono un monaco. (John Keats)

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1584. Daisy, ovvero “La fiaba dell’autostima” (2/2/2015)

In mezzo ad un cespuglio di rose rosse, nacque per caso una margherita. Una margherita che crebbe nella convinzione di essere anch’essa una rosa.
Finché un bel giorno, un ape pettegola, non le svelò la verità canzonandola. Lei, che conosceva solo rose, prese molto male la notizia della propria diversità. Si disperò e si disperò allorché non le sovvenne una strana idea. Chiese quindi ad un bruco di ritagliarle le foglie, alle farfalle di ridipingerle il bianco ed il giallo con la polvere delle loro ali, ad un ragno di legarle insieme stretti i petali, e ad una vespa di costruire delle spine lungo il suo stelo. Si rallegrò oltremodo della propria genialità, adesso che finalmente somigliava ad una rosa. L’orgoglio le imponeva di manifestare soddisfazione! E questo lasciò trasparire, con continui proclami di ipocrita felicità, alle sue compagne rose. Nonostante ciò, qualcosa nel suo animo non smetteva di tormentarla di tristezza. Ma invece di soffermarsi ad ascoltare cosa quel dolore avesse da dirle, decise di ignorarlo ed esorcizzarlo. Passò così l’intera sua esistenza a declamare a chiunque vi si imbattesse, con toni vieppiù accesi, quanto le rose fossero più belle di tutti gli altri fiori. Soprattutto, neanche a dirlo, delle orribili margherite.
Giunse alfine il giorno della dipartita per il nostro fiorellino. Dopo il trapasso ella andò difilato a bussare al paradiso delle rose, ma non la fecero entrare; le dissero che era una rosa troppo bizzarra e diversa da loro per star lì. Allora amareggiata e riluttante si recò al paradiso delle margherite. Ma anche qui, purtroppo per lei, non ci fu nulla da fare; intanto non sembrava affatto una margherita, inoltre aveva speso l’intera vita a parlar male di loro.
Senza un posto in cui stare, quella margherita ora fluttua, eternamente sola, nell’oscuro regno che si stende tra l’essere ed il non-essere: fantasma senza identità.
E dire, che in vita, le era stato dato d’essere una margherita di rara bellezza…

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In tutto il mondo la gente arriva ai limiti dell’assurdo per evitare di confrontarsi con la propria anima. (Carl Gustav Jung)

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